lunedì 8 agosto 2011

Facebook, autostima e comportamento relazionale

In che modo la diffusione dei siti di social network come Facebook sta cambiando le modalità quotidiane di interazione sociale? E con quali conseguenze sul benessere psicologico di chi li utilizza? 

Facebook, di gran lunga il network più usato, ha attualmente nel mondo oltre 600 milioni di iscritti, più di 200 milioni nella sola Europa e circa 20 milioni in Italia[1]

La portata del fenomeno non sta solo nel numero degli iscritti ma soprattutto nella frequenza di utilizzo del sito. Circa la metà degli iscritti totali si collega quotidianamente. In Italia sono oltre 12 milioni gli utenti che accedono al sito ogni giorno[2].

La rilevanza del fenomeno ha naturalmente generato varie domande sulle conseguenze dirette alle relazioni interpersonali e al benessere psicologico di chi lo utilizza.

È vero che l’interazione via facebook riduce le relazioni interpersonali faccia a faccia?   L’utilizzo di facebook ha conseguenze negative per l’autostima e il senso di autoefficacia personale? Che relazione c’è fra il numero di amici su facebook e le reali capacità di adattamento sociale? Quali conseguenze ha l’utilizzo di facebook su qualità e modalità di relazione nella vita reale?

Di questi interrogativi si è occupata anche la ricerca scientifica in psicologia tanto che negli ultimi 5 anni sono decine gli studi pubblicati sull’argomento.

Per prima cosa, sembra infondata la credenza secondo la quale l’interazione tramite social networks sia sostitutiva della naturale relazione faccia a faccia. In uno studio[3] effettuato su 183 studenti di college americani che utilizzano Facebook e MySpace è risultato che (a) la grande maggioranza del campione li utilizza più per mantenere relazioni già esistenti che per crearne di nuove[4] e che (b) solo il 18% dichiara di comunicare con i propri amici più on-line che di persona[5]. I risultati suggeriscono quindi che l’uso dei social networks sia da considerarsi più un complemento che una sostituzione delle interazioni faccia a faccia.

Altri studi hanno indagato le relazioni fra l’utilizzo di facebook e l’autostima, pervenendo a conclusioni interessanti.

Uno studio[6] ha mostrato come la possibilità di personalizzare la propria autopresentazione attraverso la selezione delle informazioni presenti sul proprio profilo incida positivamente sull’immagine di sé migliorando di fatto l’autostima.

Lo studio ha messo a confronto l’utilizzo di facebook (e in particolare delle informazioni contenute nel proprio profilo) con i tradizionali stimoli elicitanti autoconsapevolezza (visione di sé allo specchio, visione di proprie immagini fotografiche, ascolto di registrazioni audio della propria voce, ecc…).

Era stato già osservato che gli stimoli tradizionali attivano spesso una discrepanza fra la percezione di sé e gli standards sociali di riferimento producendo conseguenze negative sull’autostima[7].

Ogni profilo di Facebook contiene informazioni su di sé simili ai tradizionali stimoli precedenti (per es. foto, video, informazioni autobiografiche) ma la possibilità di selezionare e personalizzare le informazioni si è rilevata determinante per promuovere cambiamenti in positivo dell’autostima[8].

Ulteriori ricerche hanno preso in esame due variabili relative a facebook: il numero di amici e  il tempo speso on line sul social network.

Il numero di amici è risultato (a) direttamente correlato al grado di adattamento sociale riferito da un gruppo di studenti di college americani[9] e (b) inversamente correlato al grado di timidezza riportato da un altro gruppo di studenti ai punteggi di una apposita scala[10].

È stato inoltre osservato che le persone più timide tendono a passare più tempo on line ed hanno un atteggiamento più favorevole verso il sito di social network. Ciò suggerisce da un lato che le persone più timide apprezzano facebook per la possibilità di facilitazione dei propri contatti sociali e dall’altro che si trovano maggiormente a rischio di sviluppare una dipendenza dall’uso del sito.

Mentre il numero di amici ha mostrato una certa positiva relazione anche con il benessere soggettivo riferito[11] (ma non vale la stessa cosa per la percezione di supporto sociale[12]), il tempo speso su facebook sembra mostrare una correlazione negativa con l’autostima, anche se i dati in merito non risultano per il momento univoci.

Una elevata quantità di tempo speso on line su facebook è quindi collegato al rischio di dipendenza e probabilmente a una bassa autostima dell’utente. Questa variabile tuttavia è apparsa anche positivamente correlata alla possibilità di svelare vissuti depressivi attraverso i cambiamenti di stato[13]. Questo studio ha evidenziato che oltre alla variabile del tempo, sono le risposte a questi svelamenti ad incentivare i soggetti a parlare dei propri vissuti depressivi. Ciò suggerisce la possibilità che facebook possa sia incoraggiare i soggetti affetti da depressione a parlare dei propri sintomi come primo passo per ottenere un valido supporto e sia a combattere lo stigma sociale che ancora circonda la depressione. 

Infine un ultimo dato: il tempo speso su facebook è risultato direttamente correlato con l’incremento dell’esperienza di gelosia fra partners nelle relazioni sentimentali[14]. Direi che ce lo aspettavamo, pertanto in questo caso non ci dilunghiamo in spiegazioni.  

Per concludere, i dati della ricerca finora eseguita, anche se ancora incompleti, suggeriscono a mio avviso che la diffusione di facebook non sta stravolgendo in senso negativo il nostro comportamento relazionale, ma piuttosto sembra costituirne un’estensione.

I social network come facebook non sembrano al momento costituire più che un utile strumento per incrementare le proprie opportunità comunicative, con potenziali effetti collaterali positivi su autostima e senso di auto-efficacia, e negativi in termini di rischio di sviluppo di nuove forme di dipendenza.




[3] Kujath, Carlyne L. (2011), Facebook and MySpace: Complement or Substitute for Face-to-Face Interaction?, CyberPsychology, Behavior & Social Networking, Vol. 14 Issue 1/2, p75-78; , 4p, 4 Charts
[4] Solo il 21% del campione lo usa “frequentemente” o “qualche volta” per conoscere nuove persone.
[5] Percentuale del campione che “frequentemente” tende a comunicare con i propri amici più on-line che di persona.
[6] Gonzales, Amy L., Hancock, Jeffrey T., Mirror, Mirror on my Facebook Wall: Effects of Exposure to Facebook on Self-Esteem. CyberPsychology, Behavior & Social Networking, Jan/Feb2011, Vol. 14 Issue 1/2, p79-83; , 5p
[7] - Duval S, Wicklund RA. (1972) A theory of objective self awareness. New York: Academic Press -  - Fejfar MC, Hoyle RH. Effect of private self-awareness on negative affect and self-referent attribution: A quantitative review. Personality & Social Psychology Review 2000; 4:132–42
- Storms MD. Videotape and the attribution process: Reversing actors’ and observers’ points of view. Journal of Personality & Social Psychology 1973; 27:165–75
- Ickes WJ, Wicklund RA, Ferris CB. Objective self-awareness and self-esteem. Journal of Experimental Social Psychology, 1973; 9:202–19.
[8] Più in particolare i risultati dello studio hanno evidenziato che (a) l’utilizzo di facebook, e nello specifico l’esposizione al proprio profilo, ha effetti positivi sull’autostima; questi effetti sono dovuti ai processi selettivi di autopresentazione visto che (b) i partecipanti allo studio che avevano visionato solo il loro profilo riferivano maggiore autostima di quelli che avevano visionato anche altri profili e (c) i partecipanti che avevano apportato modifiche al loro profilo durante l’esperimento riferivano maggiore autostima di quelli che non lo avevano mai modificato.
[9] Kalpidou M., Costin D., Morris J., The Relationship Between Facebook and the Well-Being of Undergraduate College Students, CyberPsychology, Behavior & Social Networking, Apr2011, Vol. 14 Issue 4, p183-189; , 7p, 4 Charts
[10] Orr E. et al., The Influence of Shyness on the Use of Facebook in an Undergraduate Sample. CyberPsychology & Behavior, Jun2009, Vol. 12 Issue 3, p337-340; , 4p, 1 Chart
[11] Junghyun Kim, Jong-Eun Roselyn Lee, The Facebook Paths to Happiness: Effects of the Number of Facebook Friends and Self-Presentation on Subjective Well-Being, CyberPsychology, Behavior & Social Networking, Jun2011, Vol. 14 Issue 6, p359-364.
[12] Non vale cioè l’affermazione più amici uguale più supporto sociale percepito.
[13] Moreno, M. A. et al, Feeling bad on Facebook: depression disclosures by college students on a social networking site, Depression & Anxiety (1091-4269), Jun2011, Vol. 28 Issue 6, p447-455; , 9; p, 4.
[14] Muise, A., Christofides, E., Desmarais, S, More Information than You Ever Wanted: Does Facebook Bring Out the Green-Eyed Monster of Jealousy?, CyberPsychology & Behavior, Aug2009, Vol. 12 Issue 4, p441-444; , 4p.



martedì 5 luglio 2011

La teoria triangolare dell’Amore

La psicologia studia il comportamento e i processi mentali delle persone, nelle manifestazioni sia normali che patologiche. Questo ambito di studi comprende anche  l’indagine su temi apparentemente più "leggeri" o  solitamente appannaggio di poeti e letterati come l’amore.    

L’amore romantico, esito dell’intensa attrazione fra due esseri umani, è stato studiato in psicologia da diverse angolazioni e punti di vista. 

Lo psicologo Robert Sternberg, in particolare, ha elaborato un'interessante teoria su componenti e possibili configurazioni di questo sentimento.

Le tre componenti dell'amore

La teoria triangolare dell’amore, vede l’amore come il risultato di tre componenti: Intimità, Passione e Decisione/Impegno, collocabili metaforicamente ai vertici di un triangolo.



Le componenti dell'amore


La componente Intimità si riferisce ai sentimenti di confidenza, affinità, condivisione e comune sentire responsabili dell’esperienza di unicità e calore. Questa componente determina nella coppia la tendenza a prendersi cura dell’altro, ad aprire all’altro la propria autenticità e i propri sentimenti, a considerare il rapporto con l’altro speciale e di grande valore nella propria vita.

La componente Passione riguarda gli aspetti più impulsivi che possono caratterizzare una storia d’amore: attrazione fisica, desiderio sessuale, ma anche desiderio di appartenenza, di dominio o di sottomissione.

La componente Decisione-Impegno è distinta in due aspetti: la Decisione (aspetto a breve termine) è il primo passo che consiste nel decidere di amare qualcuno; l’Impegno (aspetto a lungo termine) consiste nell’impegno a mantenere nel tempo la relazione. I due aspetti possono essere disgiunti in quanto non sempre alla Decisione segue l’Impegno e non sempre l’Impegno è conseguenza della Decisione.

Tipi o Forme d'amore
 
Le combinazioni fra queste tre componenti definiscono 7 tipi o forme di amore variamente rappresentate nelle relazioni reali.

Tipi o forme d'amore


Di seguito descriviamo le caratteristiche di ogni forma d'amore risultante dalle differenti combinazioni delle componenti della teoria triangolare di Sternberg.

SIMPATIA (solo intimità)

In questo tipo di relazione vi è confidenza, calore e senso di unione fra i partner ma senza le caratteristiche della passione e dell'impegno. Relazioni di questo genere sono paragonabili a vere e proprie amicizie.
 
INFATUAZIONE (solo passione)
 
Tipico dell'amore a prima vista, nasce e si sviluppa improvisamente ma solitamente termina con una disillisione. Questo rapporto si basa sull'idealizzazione dell'altro più che sulla sua reale conoscenza e dura solo se la relazione non viene effettivamente vissuta o comunque fino a quando uno dei due non si scontra con una delusione derivante dal confronto con la realtà.
 
AMORE VUOTO (solo decisione/impegno)

Uno o entrambi i componenti della coppia si impegnano a continuare la relazione in mancanza delle componenti di intimità e passione. Solitamente si tratta di rapporti nella loro fase finale, in cui i partner stanno insieme solo per tener fede a un impegno preso, per decisioni coscienti legate ai figli o per es. a considerazioni economiche.
 
AMORE ROMANTICO (intimità+passione)

Si tratta della forma tipica delle grandi e intense storie d'amore letterarie e cinematografiche. Spesso la componente impegno non è presente per via di ostacoli o circostanze esterne che impediscono alla coppia di progettare un futuro.
 
AMORE AMICIZIA (intimità+decisione/impegno)
 
È il caso per esempio di quei rapporti che durano da tanto tempo, consolidati sotto il profilo dell'intimità anche se hanno visto lentamente sfumare quello della passione.
 
AMORE FATUO (passione+decisione/impegno)

In questo tipo di relazione l'impegno è conseguenza solo della passione senza il supporto dell'intimità e della conoscenza reciproca. È il caso per esempio di matrimoni dettati da decisioni impulsive prese sull'onda dell'infatuazione. Queste relazioni corrono il rischio di frantumarsi quando si troveranno a fare i conti con un impegno non sentito.
 
AMORE VISSUTO (intimità+passione+impegno)
 
È l'amore completo, ideale, che tutti sognano. Difficile farne esperienza reale e soprattutto mantenerne vive le caratteristiche nel tempo.

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Riferimenti Bibliografici:
 

Gocci G., Occhini L. (1996), Appunti di Psicologia Sociale, Guerini Scientifica.
Sternberg R. (1986), A triangular theory of Love, Psychological Review, 83, pp.119-135.
Sternberg R., Barnes M.L. (a cura di) (1990), La psicologia dell’Amore, Bompiani.



lunedì 20 giugno 2011

Assertività: Corso di Formazione (2a edizione)





COMUNICAZIONE EFFICACE

Corso di Formazione Teorico - Pratico all'Assertività

II EDIZIONE

Sala Castellani (Piazza della Repubblica, 13) - Urbino

25 e 26 giugno 2011

Informazioni ed iscrizioni su www.psicoapplicata.org
 

domenica 5 giugno 2011

Le Distorsioni cognitive

Psicologia e psicoterapia cognitiva hanno mostrato che molto raramente (e forse mai) un evento o situazione esterna è in grado di per sé di determinare le nostre reazioni emotive. Lo stesso tipo di evento è seguito infatti da conseguenze emotive e comportamentali diverse, altamente variabili fra le persone. Fra gli eventi e le nostre reazioni intervengono infatti i pensieri, cioè le modalità in cui interpretiamo quello che osserviamo e ci accade nel mondo.

Chi reputa, per esempio, una fonte di profonda vergogna una situazione diversamente considerabile solo come fastidiosa o sgradevole tenderà a sperimentare conseguenze emotive[1] connesse in modo proporzionale alla gravità del suo giudizio ed a stare quindi molto male quando potrebbe provare solo emozioni spiacevoli poco intense e di breve durata.

Il malessere psicologico, compreso quello intenso e duraturo caratteristico di molti disturbi clinici, è quindi notevolmente influenzato dal modo in cui, attraverso i pensieri, interpretiamo ciò che ci circonda e accade.

Il nostro modo di pensare, di fare previsioni e di trarre giudizi e conclusioni dagli avvenimenti non sempre segue correttamente la logica ma spesso si avvale di scorciatoie o euristiche guidate da principi di semplificazione, economici[2] ed emotivi.

Queste euristiche possono a volte rivelarsi utili dal punto di vista pratico, per esempio velocizzando le nostre decisioni quotidiane, ma possono altresì diventare meccanismi disfunzionali implicati nella genesi e nel mantenimento di problemi e disturbi psicologici.

L’utilizzo rigido e pervasivo di queste modalità interpretative non logiche è alla base infatti dei pensieri automatici disfunzionali che caratterizzano il dialogo interno delle persone che soffrono di tali disturbi.   

La psicoterapia cognitiva ha raccolto sotto il nome di Distorsioni cognitive alcune di queste modalità disfunzionali di interpretare le esperienze.

Di seguito riporto un elenco e una breve descrizione delle più comuni Distorsioni cognitive, premettendo tuttavia che il loro efficace utilizzo terapeutico è parte di un processo più vasto, che passa necessariamente dalla ricostruzione del dialogo interno e dall’identificazione dei pensieri automatici caratteristici della persona, che si svolge attraverso la guida dello psicoterapeuta.


Le Distorsioni cognitive

  • Pensiero “tutto o nulla”: Detta anche “pensiero dicotomico” o visione “bianco o nero”, accade quando vediamo le cose separate solo in due categorie: buone o cattive, sicure o pericolose, ecc…, senza sfumature o vie di mezzo.
  • Catastrofizzazione: Pensiamo che un evento avrà per noi conseguenze più importanti di quelle reali. Può accadere quando “prediciamo” il futuro in maniera negativa senza considerare altri possibili esiti o sviluppi; oppure quando giudichiamo un evento negativo (o la sua possibilità) come una catastrofe intollerabile. 
  • Sminuire il positivo: Svalutiamo o squalifichiamo in modo irragionevole esperienze, qualità, azioni positive che ci riguardano. È il caso per esempio di quando sottovalutiamo i successi sostenendo con noi stessi e con gli altri che sono poco importanti o immeritati.  
  • Filtro mentale: Filtriamo mentalmente la realtà quando prestiamo attenzione solo ad un dettaglio trascurando di considerare l’intero quadro e filtrando selettivamente solo gli aspetti negativi di una situazione.
  • Ragionamento emotivo: Pensiamo che qualcosa debba essere vero solo per il fatto che "sentiamo" che è così, ignorando tutto ciò che prova il contrario. 
  • Lettura del pensiero: Crediamo di sapere quello che gli altri pensano e provano, o il motivo per cui agiscono in un certo modo pur non avendone prove. Riguarda particolarmente pensieri riferiti a quello che gli altri pensano di noi. Assumiamo di saperlo senza riscontri concreti (per esempio senza averlo mai sentito dire da nessuno).
  • Iper-generalizzazione: Facciamo "di tutta l'erba un fascio" giungendo a conclusioni eccessive che vanno ben oltre i dati a nostra disposizione.
  • Personalizzazione: Crediamo di essere noi i responsabili dell’infelicità altrui; oppure attribuiamo a noi stessi la colpa di cose negative che accadono agli altri senza considerare altre spiegazioni più plausibili.
  • Due pesi e due misure: Valutiamo noi stessi molto più severamente di come facciamo con gli altri.
  • Doverizzazione: Giudichiamo noi stessi o gli altri troppo rigidamente, sulla base di come uno "dovrebbe" comportarsi o sentire. 



[1] Con corrispondenti implicazioni sul piano del comportamento
[2] Indirizzati al risparmio di tempo



Riferimenti Bibliografici:

- Beck A.T. (1976), Principi di Terapia Cognitiva, Astrolabio
- Andrews G. et al. (2003), Trattamento dei disturbi d'ansia, Centro Scientifico Editore



 

giovedì 12 maggio 2011

Il Disturbo di Panico

La caratteristica principale del Disturbo di Panico è la presenza di Attacchi di Panico ricorrenti e inaspettati seguiti dalla preoccupazione persistente di averne altri, da preoccupazioni a proposito delle implicazioni dell'attacco o delle sue conseguenze o da significative alterazioni del comportamento correlate agli attacchi (APA, 2000).

Per Attacco di Panico intendiamo un periodo preciso di intensa paura e disagio che si sviluppa improvvisamente e raggiunge il picco nel giro di 10 minuti, costituito da almeno 4 dei seguenti sintomi: palpitazioni o tachicardia, sudorazione, tremori, dispnea, sensazione di asfissia, dolore o fastidio al petto, nausea o disturbi addominali, sensazioni di sbandamento o di svenimento, derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (sensazione di essere distaccati da se stessi), paura di perdere il controllo o di impazzire, paura di morire, parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio), brividi o vampate di calore.

Circa la metà delle persone con Disturbo di Panico (DP) presenta anche Agorafobia, una condizione clinica che rende il disturbo più grave e disabilitante e quella per la quale ci si rivolge più frequentemente per un aiuto psichiatrico e psicoterapeutico. La maggior parte dei pazienti con DP che chiede un trattamento è infatti anche agorafobica. L’Agorafobia è definibile come l’ansia relativa all’essere in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile (o imbarazzante) allontanarsi, o nei quali potrebbe non essere disponibile aiuto nel caso di un attacco di panico o di sintomi simili.  

L’Agorafobia solitamente si sviluppa come conseguenza ad attacchi di panico e conduce a comportamenti di evitamento che possono limitare molto lo stile di vita delle persone che ne soffrono. Gli evitamenti riguardano tre generi di situazioni: solitudine (lontananza da luoghi e persone familiari), costrizione fisica (ascensori, cinema, treni, aerei, metropolitane, ecc…) e spazi aperti come piazze o ponti.

La prevalenza del Disturbo di Panico nella popolazione generale oscilla fra l’1,5% e il 3,5%, con una frequenza di diagnosi doppia nelle donne rispetto agli uomini.


Il modello Cognitivo del Panico

Il modello Cognitivo del Panico (Clark, 1986; Salkovskis et al., 1996, 1999; Wells, 1997), individua l’insorgenza di un attacco di Panico nello sviluppo di un determinato circolo vizioso di eventi. Secondo il modello gli attacchi di panico si verificano a causa dell’interpretazione catastrofica di sensazioni corporee o mentali in realtà innocue.

Più dettagliatamente avviene che uno stimolo interno o esterno viene percepito come minaccioso e crea uno stato di ansia accompagnato e seguito da determinate sensazioni somatiche e mentali che a loro volta vengono interpretate quale segno di una catastrofe imminente; a questo punto la persona si allarmerà ulteriormente acuendo lo stato d’ansia e il rilievo dato alle sensazioni temute procedendo nel circolo vizioso che culminerà nell’attacco di panico. Il modello ha ricevuto conferme cliniche e sperimentali da studi condotti in laboratorio. 


Modello Cognitivo del Panico con meccanismi di mantenimento

Il modello esplicativo si arricchisce con l’introduzione dei fattori che aggravano e cronicizzano il problema: si tratta dei comportamenti protettivi messi in atto dai pazienti con Disturbo di Panico aventi nelle intenzioni la finalità di evitare situazioni ed esiti temuti ma che rappresentano meccanismi di mantenimento del Disturbo.

I processi presenti nel modello ed altri importanti fattori che risultano coinvolti nell’insorgenza e mantenimento del Disturbo sono oggetto del trattamento cognitivo-comportamentale del DP.


La Terapia cognitivo-comportamentale del Disturbo di Panico

I dati provenienti dalla ricerca indicano nella terapia cognitivo-comportamentale (TCC) il trattamento psicologico elettivo per il DP con e senza Agorafobia (Lyddon e Jones, 2002). Una analisi di Roth e Fonagy (1996), per esempio, evidenzia che la TCC è risultata efficace in 2/3 dei casi di DP con Agorafobia e nel 85% dei casi di DP senza Agorafobia.

Come elemento centrale del trattamento la TCC prevede la modificazione delle credenze patogene coinvolte nell’insorgenza e mantenimento del Disturbo. La modificazione è ottenuta attraverso l’intervento combinato di tecniche cognitive e comportamentali quali la ristrutturazione cognitiva, l’esposizione graduale alle sensazioni e situazioni temute e la contemporanea cessazione della messa in atto dei comportamenti protettivi/di mantenimento.


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Riferimenti Bibliografici

- American Psychiatric Association (2000), DSM IV-TR, Masson  
- Clark D.M. (1986), A cognitive approach to panic, Behaviour research and Therapy, 24, 461-470.  
- Gragnani A., Mancini F. (2008), Il Disturbo di Panico e l'Agorafobia, in Mancini F., Perdighe C. (a cura di), Elementi di Psicoterapia Cognitiva, Fioriti.
- Lyddon W.J., Jones J.V. (2002), L'approccio evidence-based in psicoterapia, McGraw-Hill.
- Roth A., Fonagy P. (1996), What works for whom? a critical review of psychotherapy research, The Guilford Press.
- Salkovskis P.M., Clark D.M., Gelder M.G. (1996), Cognition-behaviour links in the persistence of panic, Behaviour research and Therapy, 34, 453-458. 
- Salkovskis P.M., Clark D.M., Hackmann A., Wells A., Gelder M., (1999), An experimental investigation of the role of safety behaviours in the maintenance of panic disorder with agoraphobia, Behaviour research and Therapy, 37, 559-574 
- Wells A. (1997), Cognitive Therapy of Anxiety Disorders: a practice manual and conceptual guide, Wiley, Chichester.



mercoledì 6 aprile 2011

Quando possiamo parlare di disturbo psicologico?

Quando un problema o disagio psicologico costituisce un vero e proprio disturbo che necessita di attenzione clinica e aiuto professionale da parte di un esperto (psicologo, psicoterapeuta, psichiatra)?

Non unico, ma in modo particolare, fra i concetti scientifici quello di disturbo mentale o psicologico[1] è di definizione tutt’altro che semplice. Non esiste infatti una definizione assoluta ed univoca del concetto che risulta essere relativa a criteri soggettivi, statistico-normativi, sociali, storico-culturali, scientifico-epistemologici.

Nonostante la complessità della materia, seppur non in termini assoluti (cosa peraltro irrealizzabile e neppure auspicabile) un ragionevole grado di accordo è rintracciabile in una definizione basata sull’utilizzo di più indicatori.

Il DSM-IV (la quarta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) concettualizza il disturbo mentale come una sindrome[2] clinicamente significativa[3] che si presenta in un individuo associata a disagio soggettivo (es. sofferenza emotiva) e/o disabilità psico-sociale (compromissione del funzionamento sociale, relazionale, scolastico o lavorativo), ad un aumento significativo del rischio di morte, di dolore o di disabilità, o a un'importante limitazione della libertà. In più questa sindrome non deve rappresentare semplicemente una risposta attesa o culturalmente sancita ad un particolare evento[4].

Non possono essere considerati un disturbo mentale comportamenti devianti di tipo politico, religioso, sessuale ecc…, a meno che questi comportamenti non rappresentino sintomi di un quadro avente le caratteristiche sopra descritte.

Il DSM-IV presenta questa definizione in quanto “utile come qualsiasi altra definizione disponibile, e per il contributo dato nella scelta delle condizioni al confine tra normalità e patologia”.

In sintesi e in termini più restrittivi, per essere tale un disturbo psicologico deve causare un disagio significativo alla persona (per esempio in termini di intensità e durata della sofferenza emotiva) e/o determinare una marcata interferenza negativa sulla sua vita quotidiana, sociale, relazionale, scolastica o lavorativa, manifestandosi in modalità che si discostino da quelle attese nella cultura di appartenenza.

La valutazione dell’entità di un problema psicologico nonché la diagnosi di un disturbo è un’operazione delicata che esige l’utilizzo di risorse e strumenti conoscitivi di pertinenza di un professionista della salute mentale (psicologo, psicoterapeuta, psichiatra). 




[1] La stessa dizione di disturbo psicologico (o mentale) può risultare fuorviante dato che riconduce ad una distinzione mente-corpo superata e inappropriata. In realtà è ormai chiaro come allo stesso tempo ci sia molto di “fisico” nei disturbi mentali e molto di “mentale” nei disturbi fisici.
[2] Insieme di segni e sintomi
[3] Rilevanti rispetto alla norma i parametri dell’intensità, frequenza, durata, disagio esperito e/o grado di compromissione del funzionamento psicosociale.
[4] Ad esempio una reazione di lutto successiva alla perdita di una persona cara. 



Riferimenti bibliografici:

American Psychiatric Association (1994), DSM-IV, Masson.


venerdì 18 marzo 2011

Schema Therapy: un approccio cognitivo-comportamentale integrato al trattamento dei disturbi di personalità

La Schema Therapy rappresenta un approccio terapeutico che integra e amplia la terapia cognitivo-comportamentale (TCC o CBT nell’acronimo inglese) utilizzato efficacemente[1] nel trattamento dei pazienti con disturbi di personalità o con particolare resistenza al cambiamento. Negli ultimi anni la TCC ha rivolto il proprio interesse verso l’area dei disturbi di personalità con l’obiettivo di sviluppare modelli di trattamento maggiormente efficaci nei confronti di pazienti con patologie tendenti alla cronicità.

Con questo intento sono stati realizzati nuovi approcci in direzione integrativa della TCC tradizionale. Fra questi la riarticolazione della terapia cognitiva standard ad opera dello stesso A.T. Beck assieme ad A. Freeman (1993), il modello dialettico-comportamentale di M. Linehan (2001) e la terapia cognitiva centrata sulla promozione delle capacità metacognive di A. Semerari (1999). Ed è in questo filone che si inserisce la Schema Therapy sviluppata dal clinico e ricercatore statunitense Jeffrey Young (2007).


Gli schemi maladattivi precoci

La Schema Therapy è centrata sul concetto di “schema maladattivo precoce” (SMP), all’origine dei tratti patologici di personalità e dei disturbi di personalità propriamente detti.

In psicologia e psicoterapia cognitiva uno schema è una modalità organizzativa tramite la quale un individuo interpreta i propri vissuti esperienziali. Gli schemi cognitivi, che possono essere positivi o negativi per l’adattamento, si formano solitamente durante l’infanzia e l’adolescenza e “filtrano” e organizzano le esperienze vissute in età adulta anche quando la loro lettura è inappropriata e distorta.

Uno schema maladattivo precoce è un’organizzazione emotiva e cognitiva disfunzionale che viene utilizzata per comprendere se stessi e gli altri e che si sviluppa nell’infanzia o nell’adolescenza e si mantiene per tutta la vita. Gli SMP sono resistenti al cambiamento, le persone restano solitamente legate a queste modalità interpretative pur ricavandone sofferenza emotiva e svantaggi sul piano dell’adattamento.

Il modello della Schema Therapy ha individuato diciotto SMP, distinti in cinque categorie o “domini”: distacco e rifiuto (schemi compresi: abbandono, sfiducia/abuso, deprivazione emotiva, inadeguatezza, esclusione sociale), mancanza di autonomia e abilità (schemi compresi: dipendenza, vulnerabilità, invischiamento, fallimento), mancanza di regole (schemi compresi: pretese/grandiosità, autocontrollo e autodisciplina non sufficienti), focalizzazione sugli altri (schemi compresi: sottomissione, auto-sacrificio, ricerca di approvazione/ammirazione), ipervigilanza e inibizione (schemi compresi: negatività/pessimismo, inibizione emotiva, standard severi/ipercriticismo, punizione).


Esiti degli schemi: mantenimento o correzione

Gli SMP possono dar vita a due processi: il mantenimento e la correzione. Pensieri, sentimenti, esperienze e comportamenti che abbiano a che fare con uno schema possono concorrere al suo mantenimento (se lo rinforzano) o alla sua correzione (se lo indeboliscono).

Gli SMP vengono mantenuti da tre principali meccanismi: le distorsioni cognitive, gli stili di vita autodistruttivi e gli stili di coping disfunzionali o maladattivi.

Le distorsioni cognitive sono particolari modalità cognitive disfunzionali di valutare le esperienze e gli eventi, già considerate in TCC coinvolte nella genesi e mantenimento di disturbi in asse I e II.

Con la messa in atto di stili di vita autodistruttivi il soggetto, senza esserne consapevole, favorisce circostanze e situazioni interpersonali che mantengono lo SMP, evitando invece quelle che potrebbero indebolirlo o addirittura invalidarlo.

Gli stili di coping maladattivi vengono sviluppati per far fronte agli SMP ma ne rappresentano elementi attivi nel processo di mantenimento. Sono stati distinti tre stili di coping maladattivi: la resa, l’evitamento e l’ipercompensazione. Per ognuno di questi stili esistono varie e specifiche risposte di coping.

Completa il modello teorico di Young il concetto innovativo di “mode” che si riferisce all’insieme di schemi e relative operazioni (adattive e maladattive) attivi in un soggetto in un determinato momento. I mode sono raggruppati in quattro categorie: Bambino, Coping disfunzionale, Genitore disfunzionale, Adulto funzionale.


Correzione degli SMP e intervento terapeutico

La correzione degli SMP è il principale obiettivo della Schema Therapy, dove per correzione intendiamo la trasformazione di uno schema maladattivo in uno più funzionale e positivo per l’adattamento. L’intervento terapeutico opera sui livelli cognitivo, emotivo e comportamentale con l’obiettivo di indebolire lo schema disfunzionale, modulare l’intensità delle emozioni ad esso associate e favorire nel paziente l’apprendimento e la messa in atto di strategie di coping più funzionali.



[1] http://www.isst-online.com/publications

  
Riferimenti bibliografici:

Beck A.T. e Freeman A. (1993), Terapia cognitiva dei disturbi di personalità, Mediserve.
Linehan M. (2001), Trattamento cognitivo-comportamentale del disturbo borderline, Cortina.
Semerari A. (a cura di) (1999), Psicoterapia cognitiva del paziente grave, Cortina. 
Young J.E. et al. (2007), Schema therapy. La terapia cognitivo-comportamentale integrata per i disturbi della personalità, Eclipsi. 


domenica 9 gennaio 2011

Ritardo mentale: quale approccio sul piano educativo-riabilitativo?


Il ritardo mentale, o disabilità intellettiva, è caratterizzato da un funzionamento intellettivo significativamente al di sotto della media che si manifesta prima dell’età adulta e comporta carenze sul piano del comportamento adattivo che possono riguardare la comunicazione, l’auto-gestione, la vita domestica, le abilità sociali, la fruizione delle risorse della comunità, la salvaguardia della propria sicurezza personale oltre che il funzionamento scolastico e le capacità lavorative.

Questa condizione interessa circa il 2-3% della popolazione generale e presenta differenti livelli di gravità. Attualmente vengono specificati 4 gradi che riflettono il livello della compromissione intellettiva: Lieve (85% circa dei soggetti affetti), Moderato (10%), Grave (3-4%) e Gravissimo (1-2%).

Dopo la diagnosi, effettuata attraverso la valutazione con appositi test di intelligenza standardizzati (sempre indicata se possibile) e affidabili riscontri di deficit significativi del funzionamento adattivo, il problema che si pone riguarda il tipo di strategie da mettere in atto sul piano riabilitativo psico-sociale. In altri termini, che cosa fare per migliorare le condizioni di vita e le capacità di adattamento delle persone affette dal disturbo?

Il problema non è semplice e qualsiasi approccio strategico in chiave riabilitativa che miri ad essere concretamente efficace deve necessariamente comprendere almeno quattro aspetti: (1) un approccio globale rivolto alla qualità della vita della persona, (2) una accurata valutazione di base, (3) un progetto individualizzato che contenga interventi riabilitativi specifici, (4) un metodo di lavoro che preveda procedure di verifica sui risultati conseguiti.

Proverò a spiegare brevemente questi punti.


L’approccio deve essere rivolto alla qualità della vita

Qualsiasi approccio educativo-riabilitativo non può, come fine sovraordinato, non essere rivolto al miglioramento della qualità della vita della persona oggetto dell’approccio. Ciò vuol dire tener conto sia di aspetti soggettivi - come il benessere psicologico e la soddisfazione personale - che oggettivi, quali il sostegno dell’autonomia, la possibilità di essere produttivi, l’integrazione sociale e comunitaria.


L’approccio non può prescindere da una accurata valutazione di base

Il ritardo mentale può scaturire da molteplici eziologie che conducono a quadri individuali fra loro molto differenti. Una valutazione accurata prevede un aspetto quantitativo e uno qualitativo.
Il punto di vista quantitativo prevede necessariamente di partire dalla valutazione del livello di gravità del Ritardo.

I soggetti con Ritardo Lieve, con adeguata guida e assistenza, possono acquisire capacità sociali e occupazionali sufficienti per un livello minimo di autosostentamento. Per queste persone quindi le strategie riabilitative devono poter puntare all’acquisizione dell’autonomia necessaria a un graduale inserimento sociale e lavorativo nella comunità.

Una diagnosi di Ritardo Moderato non pregiudica totalmente la possibilità di un parziale inserimento lavorativo se a queste persone è offerta la possibilità di poter lavorare in ambienti protetti, sotto adeguata supervisione. Gli individui con questo livello di compromissione funzionale inoltre necessitano tipicamente di interventi indirizzati all’incremento dell’autonomia nella cura della propria persona e al miglioramento delle abilità relazionali e sociali.

Le persone con Ritardo Grave e Gravissimo hanno particolarmente bisogno di interventi specifici mediante i quali possono essere in grado di incrementare la loro autonomia e le loro abilità. La maggior parte di loro si adatta bene alla vita di comunità in contesti protetti e beneficia di trattamenti adeguati condotti in ambienti specializzati.

La valutazione quantitativa riferita al livello intellettivo non può bastare per approntare un adeguato iter riabilitativo. Persone con un medesimo Q.I. (Quoziente Intellettivo, punteggio che scaturisce dalla valutazione tramite appositi test standardizzati) possono infatti presentare difficoltà e deficit molto differenti.
È molto importante allora rilevare tramite osservazioni mirate e/o strumenti adeguati (esistono scale di valutazione specifiche) i deficit del funzionamento adattivo riferiti al singolo individuo, per pervenire a valutazioni cliniche che evidenzino capacità e carenze in diversi ambiti significativi.


L’approccio deve prevedere interventi educativo-riabilitativi specifici

Amore, accettazione, inclusione sono elementi essenziali di ogni strategia riabilitativa rivolta alle persone con disabilità intellettiva, ma non bastano a produrre miglioramenti funzionali significativi. Se isolati poi, possono scivolare verso un atteggiamento compassionevole e fatto di attenzioni generiche che rischia di rinforzare la persona nei suoi aspetti più regressivi.

In diretta conseguenza del punto precedente quindi, è necessario impostare interventi tecnici specifici, mirati ai deficit evidenziati e con l’obiettivo di migliorare le condizioni di partenza, quando ciò è ritenuto possibile.

Più estesamente, gli interventi specifici possono essere realizzati per perseguire una duplice direzione: da una parte tendere a favorire lo sviluppo di nuove competenze sul versante dell’autonomia personale, della comunicazione, delle abilità sociali; dall’altra indirizzarsi a ridurre frequenza e intensità di comportamenti disfunzionali (stereotipie, agiti aggressivi verso gli altri, condotte autolesionistiche, ecc…).

La validità degli interventi approntati (assieme alla loro precocità) costituisce un aspetto fondamentale di un approccio riabilitativo efficace. Un intervento può dirsi valido quando è di dimostrata efficacia. Nel corso degli ultimi quarant’anni, numerosi studi rivolti a persone con disabilità intellettiva hanno dimostrato l’efficacia delle tecniche psicologiche comportamentali sia nell’insegnamento di nuove abilità essenziali alla sopravvivenza sociale che nel decremento dei comportamenti-problema.


L’approccio deve servirsi di un metodo di lavoro che preveda procedure di verifica sui risultati conseguiti

L’impiego di collaudati interventi provenienti dal modello comportamentale prevede di essere preceduto e seguito da due distinti importanti passaggi.

(a) Prima di realizzare l’intervento è indicato stabilirne gli obiettivi scaturiti a loro volta dalla valutazione inizialmente effettuata. Gli obiettivi dovranno essere realistici e fattibili, mirando a un miglioramento delle condizioni di partenza quando ciò è ritenuto possibile. Inoltre gli obiettivi saranno espressi in modo chiaro e empiricamente verificabile.

(b) Gli interventi realizzati dovranno prevedere successive fasi di controllo sull’efficacia degli stessi in relazione agli obiettivi prestabiliti. In altre parole, si dovrà verificare se gli interventi effettuati hanno o meno prodotto i risultati prefissati. In caso negativo, gli operatori responsabili potranno approntare le necessarie correzioni.

Il percorso così delineato di valutazione → obiettivi → intervento → verifica, costituisce un metodo di lavoro che assicura la messa in campo di interventi di comprovata efficacia attraverso le procedure proprie del metodo scientifico.

È da aggiungere inoltre che la registrazione e documentazione di procedure ed esiti che necessariamente deriva dall’applicazione di un simile approccio, consente di tenere traccia dei risultati raggiunti e può favorire un circolo virtuoso di comunicazione potenzialmente utile ai diversi soggetti coinvolti nel Servizio erogato (famigliari degli utenti, operatori/educatori, responsabili amministrativi).


Riferimenti Bibliografici:

American Psychiatric Association (1994), DSM-IV, Masson.
Caracciolo E., Rovetto F. (a cura di) (1997), Ritardo Mentale: strategie e tecniche di intervento, FrancoAngeli.
Foxx R.M. (1986), Tecniche base del metodo comportamentale, Erickson.
Martin G, Pear J. (2000), Strategie e tecniche per il cambiamento: la via comportamentale, McGraw-Hill.